Fleabag” è una serie tv che si può guardare su Prime Video (ti puoi iscrivere qui al servizio streaming di Amazon usufruendo di 30 giorni gratuiti).

Scritta e interpretata dall’attrice e sceneggiatrice Phoebe Waller-Bridge, ha vinto 4 Emmy Awards, dimostrandosi rivoluzionaria.

È il racconto disincantato della vita di una trentenne londinese che cerca di andare avanti tra i chiaroscuri della sua vita, e già questa descrizione che ho appena scritto è riduttiva della grandezza di questa serie TV.

In questo articolo ho messo insieme tre buoni motivi per cui devi vedere Fleabag. E ti assicuro che sono il minimo.

1. Fleabag ci fa capire che essere “femministe imperfette” è ok

Una delle frasi più famose pronunciate dalla protagonista è questa:

A volte ho paura che non sarei così femminista se avessi delle tette più grosse.

Fleabag

Questa frase fa inevitabilmente riflettere sul rapporto tra attivismo e gestione del proprio corpo per le donne. In un’altra scena epica la protagonista e la sorella a un convegno femminista ammettono che farebbero di tutto per avere un “hot body“. Sono le uniche ad alzare la mano in sala, piombando poi nell’imbarazzo, come se dovessero sentirsi in colpa per quella ammissione. Non ci è forse capitato di sentirci anche così?

Pensiamo anche solo alla questione della depilazione: alcune potrebbero pensare che depilarsi non sia “da femministe”; ma il punto non è se scegli di depilarti o meno (non c’è una scelta più meritevole di un’altra), il punto è avere la libertà di scegliere (e quindi di non essere guardata male per strada se hai i peli). Anche per questo si batte il femminismo.

È ancora diffusa purtroppo l’idea che in qualche modo il nostro corpo, come donne, debba definire anche la nostra libertà di pensiero. Basti pensare al cliché della donna “bella e stupida”. Solitamente la “stupidità” viene associata a un fisico procace oppure alla decisione di esporre il proprio corpo (ad esempio sui social).

Di questo tema si parla spesso nell’ambito del femminismo sex positive, ossia quel tipo di femminismo che credere nell’autodeterminazione della donna rispetto alle proprie scelte sessuali e del proprio corpo in relazione a questa sfera. Recentemente ne ha parlato Carlotta Vagnoli in questo post:

Visualizza questo post su Instagram

(L’oggetto è di come l’oggetto in questione non sia vostro oggetto e non lo sia mai stato perché non esiste la donna oggetto) Di come il corpo altrui non dovrebbe essere materia invalidante nella discussione *politica. Perché di politica si parla, quando si tratta di femminismo. E una delle teorie che più spesso intasano i miei inbox è quella del “se fai attivismo e ti mostri in costume allora non sei seria, allora favorisci il patriarcato”. Come se il mio corpo diventasse discriminante politica, per gli altri e non per me che ne dispongo, come se il mio corpo fosse il freno per poter essere una brava persona o una professionista, come se, ancora, il corpo femminile fosse di tutti tranne che della legittima proprietaria che perde il diritto di disporne e autodeterminarsi in base a ciò che divulga, promuove, discute o non discute. Se fai vedere il culo allora puoi solo fare porno, riecheggia nella credenza popolare. Se mostri, sei oggetto e non persona. La forma è ancora vincolata alla sostanza in un modo primitivo, per cui sei wife material se sei coperta e un po’ pudica ed invece sei poco seria, marcia, sicuramente incompleta ed irrisolta se hai consapevolezza e frivolezza, vanità o semplicemente malizia. Come se la discussione venisse annullata da un culo, come se il mio culo fosse altrui, come se un culo fosse la discriminante. Come se dovessi giustificarlo, il mio culo. Come se un culo negasse la preparazione di una persona, potesse renderla meno seria, meno adulta, meno meritevole di sedersi ad un tavolo ed imbastire una discussione su etica, politica, cultura. Come se lavorassi male, per colpa del mio culo. Questo avviene perché da secoli il controllo sulla donna passa proprio per il suo corpo: non c’è mezzo migliore per rimettere una donna al proprio posto che dirle “copriti”. Che dirle “svergognata”. E allora sí, il corpo necessariamente è politico perché finché non sarà svincolato dalla strumentalizzazione più becera allora sarà per sempre un’arma di propaganda alla liberazione. Se un culo infastidisce perché non pornografico e quindi fruibile allora la strada è davvero lunga. Eppure, non so come dirvelo: è solo un culo.

Un post condiviso da C. (@carlottavagnoli) in data:

La stessa Waller-Bridge ha ammesso in più interviste il suo rapporto critico col femminismo, ragionando sul concetto di “bad feminist“:

Penso che sia un sentimento che molte donne, e forse anche alcuni uomini, provano nel timore di finire nella trappola di essere delle cattive femministe, ossia qualcuno che non corrisponde a tutte le caselle per essere una femminista perfetta o una portavoce perfetta della causa.

Phoebe Waller-Bridge

Dunque, non c’è un esame a punti per cui se ottieni il 100% ti rilasciano il “patentino femminista”: il femminismo è un percorso continuo di arricchimento e consapevolezza. E sì, si può essere femministe imperfette. Ne hanno parlato Giulia Blasi, Marina Pierri, Irene Facheris e Chiara Tagliaferri al recente Festival delle serie TV online (dal minuto 3 circa):

Io non dimentico i miei “errori” del passato (quando ad esempio con molta frequenza usavo «porca troia», parolaccia sessista, oppure criticavo l’aspetto fisico di altre donne) ma oggi sono consapevole del sistema culturale da cui nascevano, e lo combatto ogni giorno – combatto anche contro i pregiudizi che ancora ho – per essere una persona migliore e provare nel mio piccolo a dare un contributo per migliorare anche la situazione attorno a noi.

2. Per perdonarti per il cattivo sesso che hai fatto

Bisognerebbe cominciare a guardare Fleabag anche solo per questo monologo del primo episodio, che comincia con la protagonista alle prese con del sesso (anale) occasionale (non molto voluto) con un ragazzo:

Ho il terribile sospetto di essere una donna avida, pervertita, egoista, cinica, depravata e moralmente fallita che non merita di chiamarsi femminista.

Fleabag

Quante volte abbiamo fatto del “cattivo sesso“?

Intendo del sesso fatto senza molta voglia, magari per compiacere o per darci una botta di autostima, per trovate delle conferme o per non sottostare all’imbarazzo di dire di no, perchè ormai che sei lì, e va fatto. Sulle dating app poi è un attimo che si finisca in dinamiche del genere, come ho raccontato nel mio libro “Tinder and the City“.

“Cattivo sesso” non significa per forza stupro o sesso senza consenso, è cattivo sesso ad esempio quello descritto in Cat Person (che ho recensito qui), racconto virale di Kristen Roupenian apparso sul New Yorker e poi tradotto in Italia da Einaudi in una raccolta di racconti della stessa autrice.

Di recente ho letto “Le ragazze stanno bene” (che ho recensito qui), di Giulia Cuter e Giulia Perona (HarperCollins) e vi ho trovato questo passaggio molto significativo in merito a questo argomento:

Il consenso non risolve tutti i nostri problemi sociali o le ingiustizie riguardanti la sfera della sessualità. Proprio come acconsentiamo a lavori mortificanti, altrettanto spesso acconsentiamo a un sesso ingiurioso. Alcuni personaggi televisivi, critici di destra del movimento #MeToo, sostengono che si sia confuso lo stupro con il brutto sesso, ma il problema è proprio il fatto che facciamo del brutto sesso, non solo stabilire quando c’è stato uno stupro. Non intendo per brutto sesso del sesso insoddisfacente, come per esempio quando nessuno raggiunge l’orgasmo. Intendo sesso indesiderato, doloroso o concesso a malincuore, oppure che richiede l’uso di sostanze illecite per poter essere fatto.

“Le ragazze stanno bene”, tratto da un articolo di J. Fischel su Aeon (2018).

Con acume dissacratorio il personaggio di Fleabag ammette per tutta la serie la sua dipendenza dal sesso, come racconta alla sua terapeuta: «Ho trascorso gran parte della mia vita usando il sesso per evitare il vuoto urlante dentro al mio cuore».

Credo che questa ammissione così lucida debba insegnarci a perdonare noi stesse per quelle volte che abbiamo fatto sesso senza desiderio e/o con persone che poi abbiamo reputato altamente improbabili, quando invece del sesso, magari, cercavamo altro.

3. Per ricordarti che l’amore fa male, ma non per questo devi smettere di amare

[ATTENZIONE SPOILER SUL FINALE!]

La seconda stagione di Fleabag ci ha tenut* incollat* allo schermo con la travagliata liaison tra la protagonista e il prete (di cui pure non conosciamo il nome, al pari della protagonista), risvegliando forse delle fantasie sessuali, o la consapevolezza che quella è una delle situazioni peggiori nelle quali cacciarsi, dopo quella con persone sposate (ma sempre di terzi incomodi si tratta, in un caso è un altro/a, nell’altro è Dio).

Eppure la protagonista di Fleabag si getta in quell’avventura senza paracadute, pur sapendo che al 99% cadrà dall’alto e si farà anche molto male. Come scrivono sul The Atlantic, in Fleabag “l’amore cammina sempre affianco alla carneficina”.

La chiosa del prete alla fine è lapidaria:
«Ti amo», dice lei.
«Passerà», risponde lui.
Does it sound familiar?

… e mi ricorda tanto lo stile di Amori Sfigati di Chiara Rapaccini:

Eppure la protagonista di Fleabag – così imperfetta che potrebbe essere tutte noi – rimane un essere umano pieno di amore da dare, costi quel che costi.